quinta-feira, 26 de março de 2020
Flannery O'Connor sob o olhar de Antonio Spadaro sj
"Che cosa lega rockstar come Bruce Springsteen e Nick Cave a registi quali il John Huston di Wise Blood e il Quentin Tarantino di Pulp Fiction, scrittori quali gli australiani Tim Winton e Les Murray, le nordamericane Alice Munro e Joyce Carol Oates, o gli italiani Luca Doninelli e Carola Susani? Nulla, forse. Tranne Flannery O’Connor, una delle più grandi scrittrici del Novecento, letta, amata, rappresentata o imitata da tutti loro. Dire che di mezzo c’è la O’Connor significa dire sostanzialmente che c’è di mezzo il suo immaginario, le sue visioni del reale, il suo gusto, le sue tensioni espressive, le sue atmosfere. Pochi mesi fa è stato ricordato con qualche iniziativa il 40° anno della sua morte, avvenuta il 3 agosto 1964 (1). Più volte la nostra rivista, in recensioni e articoli, si è occupata della sua opera e quindi rinviamo a quelle pagine coloro che volessero conoscerla meglio o scoprirla per la prima volta (2).
Qui sentiamo il bisogno di compiere una meditazione ulteriore sulla base di un testo che il lettore italiano ha potuto gustare soltanto dal 3 agosto scorso, quando è stata pubblicata integralmente la traduzione dell’«Introduzione» al volume A Memoir of Mary Ann, firmata dalla O’Connor per la festa dell’Immacolata Concezione del 1960 (3). Si tratta di un testo sconvolgente, capace di comunicare in poche densissime pagine una lucida visione della vita, della fede e, insieme, dell’arte. È però utile qualche considerazione previa per collocare questo testo all’interno della più ampia ispirazione della O’Connor e della sua comprensione del «mistero».
Concepire il mistero nella trama del finito
La scrittrice statunitense (1925-64) considerava sua patria quel «caro vecchio lurido Sud» compreso tra la zona pedemontana della Georgia e l’est del Tennessee. È dunque figlia di quella terra che ha generato i Southerners, cioè scrittori quali Carson McCullers, Truman Capote, Tennessee Williams, William Faulkner. Morta a 39 anni, ci ha lasciato due romanzi — Wise Blood (La saggezza nel sangue) del 1952 e The Violent Bear It Away (Il cielo è dei violenti) del 1960 — e una manciata di racconti pubblicati in due tappe nel 1955 e nel 1965. Tuttavia le sue poche pagine l’hanno fatta apprezzare come un’icona, un modello. All’opera narrativa vanno aggiunte le lettere, raccolte parzialmente sotto il titolo inglese di The Habit of Being (in italiano Sola a presidiare la fortezza), e le prose occasionali di Mistery and Manners, tradotte parzialmente in italiano con il titolo Nel territorio del diavolo (4). Attilio Bertolucci si disse «folgorato» dalle sue pagine. L’immagine della folgorazione è efficace e pertinente: ci sembra di poter riconoscere in essa la forma che, meglio di altre, dice il rapporto tra la O’Connor e il mistero della vita e della scrittura.
Lei scrive perché «vede» il mondo. Anche se l’espressione può apparire banale, le cose stanno proprio così. La scrittrice ha una visione del reale, dunque niente labirinti coscienziali o incartamenti romantici. I materiali di cui è fatto un racconto per lei sono i più «polverosi»: «La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate d’impolverarvi, non dovreste tentar di scrivere narrativa» (MM, 42). Da qui un prezioso avvertimento: non è possibile suscitare l’emozione con testi infarciti di emozione né suggerire pensieri facendo fuoriuscire incontenibile il pensiero da ogni angolo del racconto. A queste cose «bisogna dar corpo, creare un mondo dotato di peso e di spessore » (MM, 60): scrivere narrativa non è questione di dire cose, ma di farle vedere al lettore, di mostrarle. Se un personaggio ha un carattere legnoso deve avere una gamba di legno, come avviene nel racconto Good Country People (Buona gente di campagna). Se la personalità cambia, allora deve arrivare un ladro a rubargli quella gamba. La concretezza dunque è una delle basi forti della poetica della O’Connor: lo sguardo rivolto alla materia della vita è un modo di discernere il mistero nell’infinita trama del finito, del concreto.
La sua visione concretissima del reale, però, non è mai da école du regard, algida e minimalista. Il realismo che intende prendere in considerazione è orientato in direzione del mistero, che si manifesta,ad esempio, nella forma dell’imprevisto o, addirittura, del grottesco: «Se lo scrittore crede che la nostra vita sia e rimarrà essenzialmente misteriosa, se ci considera come esseri all’interno di un ordine creato le cui leggi osserviamo liberamente, allora quello che vedrà in superficie lo interesserà solo in quanto passaggio per arrivare a un’esperienza del mistero stesso» (MM, 122). E allora può accadere veramente di tutto. Anche la violenza gratuita, il bizzarro e il grottesco, misto di comicità e orrore, sono funzionali a una forzatura dello sguardo.
È come se la scrittrice desse uno schiaffo al lettore, scompigliando la sua intenzionalità visiva nel momento in cui sposta il volto, angolandolo di sbieco. Ciò che salta subito per aria è quel «buon senso» vagamente illuministico che tanto ammorba la vera ispirazione. Soltanto da questo scuotimento interiore possono derivare quella pace profonda e quella serenità interiore che hanno spinto la scrittrice al buonumore sempre, anche quando fu colpita insieme da un tumore e da quel lupus erythematosus che la avrebbe condotta, ancora giovane, alla morte.
L’argomento della narrativa della O’Connor è «l’azione della grazia in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo» (MM, 82). Da qui allora si amplia il campo visivo su un mondo che ha definito come «infestato da Cristo (Christ-haunted)». La spiegazione di questa espressione si trova nel fatto che la O’Connor è particolarmente sensibile agli aspetti più drammatici e paradossali dell’incisività della grazia, che può arrivare fino all’abbrutimento del personaggio: «Ho l’impressione che gli scrittori che vedono alla luce della loro fede cristiana saranno, di questi tempi, i più fini osservatori del grottesco, del perverso e dell’inaccettabile» (MM, 136). Anzi, l’irruzione della grazia non sempre migliora la vita personale e sociale dei personaggi e, nel suo caso, è proprio esattamente il contrario. La sua narrativa allora non potrà che risultare «selvaggia», insieme violenta e comica, per via delle discrepanze che cerca di ricomporre. Ecco quindi: la O’Connor concepisce il mistero come infinita trama del finito, come mistero espansivo del mondo, come dramma della libertà e delle sue infinite possibilità che si confrontano con un’imprevedibile grazia. Che cos’è la narrativa? «La narrativa è espressione concreta del mistero» (HB, 56). Le modalità di questa espressione non sono serene, ma drammatiche, grottesche,a volte persino inquietanti.
Contro le storie di bambini devoti
È vero, la O’Connor si può leggere anche in italiano. Tuttavia andrebbe fatto uno sforzo maggiore perché l’epistolario è tradotto in minima parte e la raccolta in volume dei saggi manca di alcune perle. Tra queste proprio l’«Introduzione» al volume A Memoir of Mary Ann, da poco disponibile nella nostra lingua, anche se solamente sulle pagine effimere di un quotidiano. Nella sua semplicità, questo testo rappresenta una sintesi efficace della poetica oconnoriana appena delineata. Esso manifesta una visione estremamente realistica della realtà, senza sconti riguardo ai suoi aspetti negativi come quello del dolore innocente, intesa però sempre come telaio di un mistero profondo di libertà e di incompiutezza.
Il 4 dicembre 1960, quattro giorni prima di firmare la sua «Introduzione », la O’Connor scrive a padre J. H. McCown: «Tra poco mi ricovero al “Piedmont Hospital” per farmi ispezionare le ossa. Si stanno sciogliendo o sgretolando o diventando porose o che so io» (HB, 128). Pur avendo soltanto 35 anni, la scrittrice è malata: il disgregarsi dell’anca e della mandibola è dovuto all’eccesso di steroidi necessari a tenere sotto controllo la sua malattia, il lupus. Soffre anche di anemia, che successivamente si scoprirà essere causata da un tumore. Tutta questa sofferenza non cambia l’atteggiamento della O’Connor nei confronti della vita. Anzi essa passa nelle sue lettere solamente per accenni, spesso conditi di buon umore: la scrittrice trascina la sua croce con un coraggio straordinario e ironicamente dissimulato. Così, ad esempio, quando scrisse a un suo corrispondente per comunicargli che ormai avrebbe dovuto far uso di stampelle per poter camminare, commenta ironicamente: «D’ora in poi sarò una struttura ad archi rampanti». La O’Connor dunque conosce il male fisico per esperienza. Scrive anzi in un’altra lettera: «Non sono mai stata altrove che malata. In un certo senso la malattia è un luogo, più istruttivo di un lungo viaggio in Europa, ed è un luogo dove non trovi mai compagnia, dove nessuno può seguirti. La malattia prima della morte è cosa quanto mai opportuna e chi non ci passa si perde una benedizione del Signore» (HB, 77).
In questa condizione, nella primavera del 1960, la scrittrice riceve una richiesta da suor Evangelist, la superiora della casa per malati di cancro «Nostra Signora del Perpetuo Soccorso» di Atlanta (5). La congregazione religiosa di suor Evangelist è quella fondata dalla serva di Dio Rose Hawthorne Lathrop, la figlia del grande scrittore Nathaniel Hawthorne, convertita con suo marito dal puritanesimo al cattolicesimo. Coraggiosa nella sua scelta, — che provocò a lei e al marito commenti di sdegno da parte della società puritana dell’East Coast, persino sui giornali — lo fu ancor di più quando, rimasta presto vedova, fondò con alcune amiche la congregazione domenicana delle «Serve del Sollievo del Cancro Incurabile (The Servants of Relief for Incurable Cancer)», oggi «Suore Domenicane di Hawthorne» (6).
Ecco il senso della lettera di suor Evangelist nel racconto della scrittrice: «“Questa è una strana richiesta”, diceva, “ma cercheremo di esporre la nostra storia il più brevemente possibile. Nel 1949 una bimba di tre anni, Mary Ann, venne accolta come paziente nella nostra casa. Si rivelò una bambina straordinaria, e visse fino all’età di dodici anni. Di questi nove anni molto merita di essere raccontato. Pazienti, visitatori, suore, tutti furono in qualche modo influenzati da questa bambina malata, anche se nessuno pensava a lei come a una malata. È vero, era nata con un tumore che le copriva un lato del viso; un occhio le era stato tolto, ma l’altro brillava, ammiccava, danzava birichino, e dopo averla vista una volta non ci si rendeva più conto del suo difetto fisico, ma si riconosceva soltanto il suo spirito splendidamente coraggioso e si provava gioia per averla incontrata. Dunque la storia di Mary Ann deve essere scritta, ma chi potrebbe farlo?”» (7).
La fama della O’Connor era quella di essere una scrittrice di valore. Le suore sapevano che lei era cattolica, ma sapevano pure che era malata. Ecco cosa probabilmente suor Evangelist aveva colto nella O’Connor: una donna che era scrittrice, cattolica e malata. Insomma, era la persona ideale per scrivere un romanzo sulla piccola Mary Ann Long. E così continua senza remore: «Si sono offerte suore e altre persone, ma noi non vogliamo un raccontino pio. Vogliamo un racconto che abbia un reale impatto sulla vita dei lettori, lo stesso impatto che Mary Ann ha avuto su ogni vita che ha toccato… Non c’è bisogno che sia un resoconto fattuale. Potrebbe essere un romanzo con molti altri personaggi, ma con Mary Ann come protagonista».
Il commento della O’Connor alla lettera è semplice: «Orrore (Horrors)» e «Non io (Not me)». Prima di rispondere alle suore, riprese in mano la foto della bambina che suor Evangelist aveva allegato alla sua lettera: ritraeva «una ragazzina con l’abito e il velo della Prima Comunione. Era seduta su una panca e teneva in mano qualcosa che non riuscivo a riconoscere. Un lato del suo visetto era regolare e luminoso; l’altro lato era protuberante, l’occhio bendato, il naso e la bocca troppo vicini e leggermente fuori posto. La bambina guardava l’osservatore con evidente gioia e compostezza. Dopo aver pensato di aver visto quel che c’era da vedere, continuai a fissare la fotografia ancora a lungo». La O’Connor prese carta e penna e scrisse a Suor Evangelist che, se qualcosa andava scritto su quella bambina, doveva essere «un resoconto fattuale (factual story)» e che dunque a farlo potevano essere soltanto le suore stesse che l’avevano conosciuta e assistita. Ne era sicura. Lei, da parte sua, sarebbe stata felice di aiutarle, apportando le eventuali correzioni che si sarebbero rese necessarie.
Che cosa tratteneva la O’Connor? In realtà la scrittrice lo dice nella prima riga della sua introduzione in maniera più che chiara: «Le storie di bambini devoti tendono a essere false». E senza peli sulla lingua prosegue: «Probabilmente perché vengono raccontate da adulti, che vedono virtù dove i loro soggetti vedrebbero solo una pratica linea di condotta; o forse perché tali storie sono scritte per edificare, e quel che è scritto per edificare finisce in genere per far sorridere. Da parte mia, non ho mai avuto un grande interesse per le storie di ragazzini che costruiscono altarini e giocano a fare i preti o di bambine che si vestono da suore, o dei devoti bambini protestanti che, in mancanza di questo equipaggiamento, rischiarano gli angoli dove si trovano».
Ciò non la tratteneva dal riconoscere la qualità dei «racconti fattuali» che mettevano in scena bambini, ma certo non quelli di «angioletti», bensì quelli che mettevano in scena piccole pesti. Proprio Rose Hawthorne, che aveva ereditato dal padre il talento letterario, aveva scritto un ricordo vivacissimo del nipote della sua prima paziente, un «fiorente virgulto spuntato da radici criminali», il cui sguardo era «gagliardo del vigore satanico» (8). Infatti i «bambini cattivi sono più duri da sopportare di quelli buoni, ma è più facile leggere di loro». Per questo la O’Connor si complimentava con se stessa per aver evitato di scrivere di una brava bambina. Lo stile agiografico è quanto di più lontano ci sia da quello dei racconti della scrittrice, infatti. Dopo la sua risposta, immaginava che la madre superiora non le avrebbe più scritto.
E si sbagliava. Di lì a poco suor Evangelist si fece viva, scrivendole che le suore avevano accettato la sfida e si erano messe all’opera. Ma ciò non colpì la O’Connor: sapeva che le suore avevano da pensare ai loro malati e immaginava difficile che qualcuna di loro avesse il talento letterario della fondatrice. Così pensò che di lì a poco le religiose avrebbero rinunciato al loro progetto, sebbene generosamente intrapreso. E invece il manoscritto arrivò nel giro di poco tempo, il successivo primo agosto. Era un disastro di forma e di stile: nessuna drammatizzazione, pochi punti forti, espressioni vaghe… Eppure, finita la lettura, la O’Connor rimane a lungo a pensare al «mistero di Mary Ann (the mistery of Mary Ann)»: le suore, nonostante tutto, erano riuscite a trasmetterglielo.
La passione per un mistero incompiuto
A questo punto del racconto della sua esperienza, la penetrazione del mistero della vita di quella bambina permette alla scrittrice di aprirsi a intuizioni profondissime, che rendono l’«Introduzione» un testo, inscindibilmente letterario e spirituale, di grande rilievo.
La O’Connor pone un parallelismo geniale tra lo scritto delle suore, così imperfetto, e il suo oggetto, cioè il volto imperfetto e sfigurato della piccola Mary Ann. Entrambi risultano ai suoi occhi non «deturpati», «brutti», come se la loro fosse una condizione oggettiva, data e chiusa in se stessa irrimediabilmente. No, essi sono «incompiuti»: «Il racconto era incompiuto come il volto della bambina. Entrambi sembravano lasciati, come la creazione al settimo giorno, perché altri li finissero. Il lettore era chiamato a fare qualcosa del racconto come Mary Ann aveva fatto qualcosa del suo viso». L’incompiutezza richiama una dinamica di compimento, la messa in moto di energie sopite, la capacità di far fruttare quella negatività di cui sia il volto della bambina sia quel racconto erano testimonianza evidente. Mary Ann aveva messo a frutto la sua condizione, così il lettore è chiamato a mettere a frutto un testo imperfetto, che però contiene al suo interno un mistero profondo. In due battute la O’Connor applica teorie ermeneutiche sulla lettura di un testo letterario, che saranno sviluppate successivamente, alla vita spirituale, anticipando una riflessione che non si può dire di certo compiuta (9). Il senso profondo è che il testo letterario è veramente «compiuto» soltanto nel dialogo con la coscienza di un lettore, cioè fuori del testo stesso.
Così, intuisce la O’Connor, il compimento di una vita umana, ancor più evidentemente incompiuta (unfinished) a causa di una grave malattia, è fuori di essa e dunque «l’azione creativa della vita del Cristiano consiste nel preparare la propria morte in Cristo. È un’azione continua in cui i beni di questo mondo sono utilizzati al massimo, sia quelli positivi sia quelli che Père Teilhard de Chardin chiama “diminuzioni passive”. La diminuzione di Mary Ann era estrema, ma lei era preparata, grazie a una naturale intelligenza e a una educazione appropriata, non solo a sopportarla, ma a costruire su di essa». La condizione di incompiutezza, resa drammatica dalla malattia, la sua personale e quella di Mary Ann, non è per la O’Connor motivo di angustia né occasione propizia per meditazioni dolenti — per quanto legittime — sulla debolezza e sulla fragilità dell’esistenza.
Ciò che però più colpisce è il fatto che non ci sia spazio neanche per naturali e profonde domande sul dolore innocente né per quelle riflessioni sulla morte, che hanno caratterizzato il Novecento letterario in alcune sue altissime espressioni. La cifra del male non è la détresse, né l’angoscia, né la «gettatezza» — termine heideggeriano — dell’uomo nel mondo, ma l’incompiutezza, la condizione di essere in attesa di un compimento, che però mobilita un’azione creativa (creative action) e continua (continuous action) per la quale tutto, beni e mali, sono risorse.
Una coscienza formata al mistero e al suo insondabile fascino, giunta a questo punto, avrebbe potuto immergersi in riflessioni dense e alte, ardite e profonde, su come vivere la sofferenza e sulla preparazione alla morte, come attesa di un compimento. La O’Connor invece preferisce dare spazio semplicemente al «resoconto fattuale» e scrive di Mary Ann in maniera del tutto prosaica: «La sua fu un’educazione alla morte, ma non condotta in maniera invadente. Le sue giornate furono piene di cani e di vestitini per la festa, di suore e di sorelle, di coca-cola e panini, e dei suoi molti e diversi amici – da Mr. Slack e Mr. Connolly a Lucius, il giardiniere; da pazienti malati come lei a bambini portati alla Casa per farle visita […]». Di certo l’amore per la vita una volta aveva spinto la bambina a stringere «con tanta forza un hamburger da precipitare all’indietro dalla sedia senza lasciarlo cadere».
La O’Connor è consapevole che coi propri modi bruschi sta toccando le corde profonde e sensibili di grandi scrittori, giungendo a un confronto con il loro modo di vedere la vita. E non ha remore a scrivere: «La morte è il tema di tanta letteratura moderna: Morte a Venezia, Morte di un commesso viaggiatore, Morte nel pomeriggio, Morte di un uomo. Quella di Mary Ann era la morte di una bambina. Più semplice di ognuna di queste, ma infinitamente più rivelatrice (infinitely more knowing)». Cioè, posta sul mero piano della capacità di conoscenza, la vicenda della morte di Mary Ann, che a lei giunge attraverso il racconto di un gruppo di suore che tutto sono tranne che scrittrici di professione, è infinitamente maggiore delle «morti» descritte da autori quali Thomas Mann, Arthur Miller ed Ernest Hemingway. La O’Connor è talmente consapevole di ciò che sta dicendo da citare quegli autori che più e meglio di altri, forse, hanno saputo interrogarsi in maniera viscerale col dramma del dolore, cioè Camus e Dostoevskij: «Una delle tendenze della nostra epoca — scrive — è di usare la sofferenza dei bambini per screditare la bontà di Dio, e una volta screditata la sua bontà, aver chiuso il conto con lui. […] Intenti a tagliar via l’umana imperfezione stanno facendo progressi anche sulla materia prima del bene. Ivan Karamazov non può credere finché ci sia un bambino che soffre; l’eroe di Camus non può accettare la divinità di Cristo per via del massacro degli innocenti».
La riflessione che consegue è sconcertante, forse, ma di raro coraggio, reso con lo stile essenziale, chiaro, immediato e diretto che caratterizza la prosa della scrittrice: «In questa pietà popolare si guadagna in sensibilità e si perde in visione. Se sentivano meno, altre epoche vedevano di più, anche se vedevano con l’occhio cieco, profetico, insensibile dell’accettazione, vale a dire della fede. Ora in assenza di questa fede siamo governati dalla tenerezza. Una tenerezza che da tempo, staccata dalla persona di Cristo, è avvolta nella teoria. Quando la tenerezza è separata dalla sorgente della tenerezza, la sua logica conseguenza è il terrore. Finisce nei campi di lavoro forzato e nei fumi delle camere a gas».
Lette queste righe, tremano vene e polsi, si resta col fiato sospeso e si avverte la necessità di rileggerle, tanto appaiono ovvie e, insieme, sconcertanti. I passaggi sono velocissimi. Forse troppo. Ci si chiede se esse siano frutto di un freddo cinismo o di una fede talmente calda da ustionare. Non una parola è dedicata alla «giustificazione» di Dio, della sua immobilità davanti al dolore innocente e incomprensibile: nessuna ribellione e nessuna facile teodicea. Non si cercano (e non si trovano) risposte al problema del male. Non si fa neanche alcun rinvio alla responsabilità dell’uomo come alibi per «assolvere» Dio e per aiutare l’uomo ad essere più responsabile. Nulla di tutto questo. La O’Connor giunge persino a polemizzare in maniera sottile ma evidente persino col vescovo, mons. Hyland che, celebrando i funerali della bambina, si era chiesto perché fosse morta. Secondo la O’Connor, invece, avrebbe dovuto chiedersi piuttosto perché fosse nata, cioè interrogarsi sul mistero della sua esistenza! E così, dunque, che il termine «mistero» nelle righe della «Introduzione» non è attribuito al male o alla morte, ma alla persona stessa della piccola Mary Ann. Lei è il vero mistero di imperfezione e di attesa di compimento, non il più generale «male del mondo».
Visione e sentimento
Non c’è da aspettarsi dalla scrittura della O’Connor e dal suo stile «economico» e diretto nessuna delle sottigliezze e delle sfumature che forse aiuterebbero ad accogliere meglio il suo messaggio, rendendolo più adatto alla coscienza tormentata dal dramma. La risposta è secca. Che cosa, dunque, ci vuol dire la scrittrice, essa stessa segnata nel fisico dal dolore e dalla malattia? Non intende negare che il calore del sentimento e della sensibilità sia importante e debba avere il proprio spazio. Tuttavia la fraternità, la solidarietà della O’Connor è totalmente non sentimentale. Lei vuole aggiungere, anzi, che l’alta temperatura del sentimento, paradossalmente, rischia di appannare gli occhi e di far perdere in «visione». Soltanto una grande capacità di visione riesce a mettere a fuoco, in qualche modo, la prospettiva lontana delle imperfezioni e delle assurdità umane, decifrandole come incompletezze in attesa di compimento. Ma senza questa visione resta l’assurdo della incomprensione e del sentimento tragico. Non ci sono vie di uscita. Quest’occhio capace di «visione» può essere rozzo, primitivo, insensibile, cieco, e tuttavia è certamente «profetico». E per la narrativa, come per la fede, un occhio profetico vale molto di più di un occhio sensibile.
Avere fede significa avere un occhio profetico sulla vita e sul mondo. Fede e ispirazione letteraria, nella poetica della O’Connor, coincidono perfettamente: «Per lo scrittore di narrativa, non credere in niente equivale a non vedere niente (to believe nothing is to see nothing)» (HB, 60). Non tutti i credenti sono scrittori (come hanno dimostrato le suore domenicane!), ma chi ha fede ha l’occhio giusto per essere scrittore. Solamente così è possibile comprendere a fondo il rigore con cui dev’essere intesa la O’Connor quando afferma: «Scrivo come scrivo perché sono (non sebbene sia) cattolica» (HB, 26); e ancora: «[…] proprio perché sono cattolica non posso permettermi di esser meno di un’artista» (MM, 96).
La O’Connor riconosce nelle Serve del Sollievo del Cancro Incurabile non una generica attitudine alla tenerezza sentimentale nei confronti di una bambina malata, ma un occhio profetico, che sa vedere nel dramma la traccia di un destino (10). Se invece prevale l’occhio sensibile, allora prevale anche una vaga «tenerezza», una compassione priva di radici lontane, la cui logica conseguenza, scrive la O’Connor, sono il terrore, i campi di lavoro forzato e i fumi delle camere a gas.
Perché questa affermazione così drastica e irritante? Perché il rischio è la trasformazione della carità in idea o, meglio, in ideologia del bene per l’umanità. La carità che non sa accettare l’incompletezza (e non solamente la debolezza) della condizione umana rischia di rimanere cieca, imbrigliata in un confronto con l’utopia di un uomo e di un mondo perfetto e ideale, in cui non c’è più dolore e male. E, in effetti, in nome del maggior bene dell’uomo e della società umana, in nome della realizzazione di paradisi in terra, sono stati commessi nella storia atroci delitti.
Serve dunque un occhio profetico per guardare il male e la sua dimensione grottesca. Ma serve un simile occhio anche per guardare il bene e per riconoscerlo. Pochi, a giudizio della O’Connor, «l’hanno fissato abbastanza a lungo da accettare il fatto che anche il suo aspetto è grottesco (its face too is grotesque)». Pure quest’affermazione può apparire paradossale, se non ben intesa. Il bene è grottesco? No, non il bene in se stesso, ma il suo aspetto nel mondo. In genere, le forme del bene «devono accontentarsi di un cliché o di una lisciatina che ammorbidisce il loro aspetto reale (a smoothing down that will soften their real look)». Il bene, infatti, spesso è rappresentato in maniera dolce, tenera, delicata. E invece la sua realtà è di essere anch’esso «in corso d’opera (under construction)», e dunque incompiuto. Esso dunque può avere un look—per usare alla lettera il termine della O’Connor — non del tutto piacente e gradevole. È questa, in fondo, la chiave di lettura di tutti i suoi racconti. Così, quando «guardiamo in faccia il bene possiamo trovarci di fronte a una faccia come quella di Mary Ann, piena di promessa». Sì, la faccia deturpata della piccola malata è full of promise.
***
Ecco il punto per accettare il quale è necessaria una grande fede: dietro una grande imperfezione (dolore, malattia, tribolazione…) umana c’è una incompiutezza che resta assurda, monca, tronca, se non intesa come luogo di una promessa di pienezza. Tutte le necessarie azioni umane, tutti gli sforzi contro il male e la sofferenza, ricevono luce all’interno di questa prospettiva lunga e ampia. Anche il bene, dunque, può assumere un volto non sempre «esteticamente» gradevole, proprio perché promessa non ancora realizzata pienamente. È sempre possibile dunque che si presenti sub contraria specie. La realtà umana, vista così, assume una grande plasticità e un forte dinamismo: nulla è possibile guardare con occhio formato alle categorie cristallizzate dall’abitudine, che non servono più. Questa visione è possibile soltanto all’occhio profetico, ovviamente, che diventa il vero e radicale (per quanto invisibile) criterio per leggere ciò che ci accade sotto gli occhi (11)."
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(1) Una iniziativa che ha ampliato la riflessione sull’ispirazione oconnoriana e la sua eredità in narrativa, poesia, cinema, teatro, arti figurative, musica, è stata la giornata «Nei territori di Flannery», organizzata a Roma il 2 dicembre 2004 dall’Associazione Bomba Carta, dalle Biblioteche di Roma e dal Centro Studi Americani.
(2) Cfr F. CASTELLI, «Redenzione e perdizione nell’opera di Flannery O’Connor», in Civ. Catt. 1994 I 431-444; A. SPADARO, «La letteratura nel territorio del diavolo. La poetica di Flannery O’Connor», ivi, 2001 IV 36-45. Cfr anche F. CASTELLI, «Alla ricerca dell’uomo decaduto e redento», in ID., Nel grembo dell’Ignoto, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 2001, 503-536 e A. SPADARO, «Il volto violento della grazia», in Letture 59 (2004) 121-130 (rinviamo a questo contributo per una bibliografia completa delle opere della scrittrice).
(3) Cfr F. O’CONNOR, «Il mistero imperfetto della piccola Mary Ann», in il Giornale, 3 ottobre 2004. La traduzione è di Chiara Martini e Benedetta Scafa con la collaborazione del prof. Gaetano Prampolini, di cui le due traduttrici sono alunne, uno dei pionieri degli studi italiani sulla scrittrice statunitense. Il testo originale è in ID., Collected Works, New York, The Library of America, 1988, 822-831. L’edizione originale del volume è A Memoir of Mary Ann, New York, Farrar Straus and Cudahy, 1961.
(4) ID., Sola a presidiare la fortezza. Lettere, Torino, Einaudi, 2001 (che indicheremo di seguito con la sigla HB); ID., Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere, Roma, Teoria, 1994 (che indicheremo con la sigla MM). Segnaliamo che il volume è stato ripubblicato dall’editore romano «minimum fax» nel 2002.
(5) La casa svolge ancora la sua missione. Per informazioni ulteriori cfr http://www.archatl.com/institutions/ourladyofperpetualhelp.html
(6) La vicenda di Rose è riassunta in A. GALLI, «Rose, l’altra Hawthorne», in Avvenire, 10 dicembre 2004. Per conoscere la congregazione da lei fondata cfr http://www.hawthorne-dominicans.org/
(7) D’ora in poi le citazioni senza riferimenti alla fonte sono tratte dal testo della «Introduzione » al volume A Memoir of Mary Ann.
(8) La O’Connor ricorda il bambino «miserabile e catarroso» descritto da Nathaniel Hawthorne in Our Old Home, che finisce per piantarsi davanti a un signore riservato, restio al contatto fisico e afflitto dal disgusto per tutto ciò che è brutto, in un muto appello per essere preso in braccio. Il signore finirà per tirarlo su e tenerselo stretto. Scrive Hawthorne: «Osservai perciò con molto interesse la lotta nel suo animo, e sono seriamente dell’opinione che, quando sollevò quel bambino inguardabile e lo accarezzò con la tenerezza di un padre, egli compì un atto eroico e guadagnò molto di più di quanto non si sarebbe sognato ai fini della sua salvezza finale». Noi sappiamo dai suoi taccuini che quel signore customary reserve (riservato) e shy (timido) era proprio lo scrittore in persona. Sappiamo che la figlia Rose, come la O’Connor ci conferma, «scoprì molto di ciò che il padre andava cercando, e ne realizzò nella pratica i desideri nascosti di tutta una vita. Il ghiaccio nel sangue che egli temeva, e dal quale lo salvò proprio tale timore, fu da lei trasformato nel calore da cui ebbe origine il suo agire. Se lui osservò, con timore ma fino in fondo, se lui agì, riluttante ma con fermezza, lei si lanciò a capofitto, sicura nel cammino che la sincerità del padre aveva segnato per lei». Segnaliamo la lettura della parte dei taccuini dello scrittore tradotta in italiano da Adelphi nel 2004 con il titolo Venti giorni con Julian.
(9) Cfr A. SPADARO, «La lettura come immersione interattiva. Tra “Esercizi Spirituali” e “Realtà Virtuale”», in Civ. Catt. 2004 II 37-49.
(10) Scrive infatti: «C’è una linea diretta tra l’episodio nel ricovero di Liverpool, l’opera della figlia di Hawthorne e Mary Ann – che rappresenta non soltanto se stessa, ma tutti gli altri esempi di umana imperfezione e umano grottesco per prendersi cura dei quali le suore dell’ordine di Rose Hawthorne danno la vita. Il loro lavoro è l’albero cresciuto dal piccolo gesto cristiano di Hawthorne e Mary Ann ne è il fiore. In ragione della paura, della ricerca, della carità che segnarono la sua vita e influenzarono quella di sua figlia, Mary Ann ha ereditato, un secolo dopo, la ricchezza della saggezza cattolica che le ha insegnato cosa fare della sua morte. Hawthorne le ha dato ciò che non aveva per sé».
(11) Per la O’Connor la categoria dell’incompiutezza è fondamentale anche per capire la Comunione dei Santi, «creata sull’imperfezione umana, creata da ciò che facciamo del nostro stato grottesco».
segunda-feira, 16 de março de 2020
The Lamp of Memory
"... a picture of Titian's, or a Green statue, or a Greek coin, or a Turner landscape, expresses delight in the perpetual contemplation of a good and perfect thing. That is an entirely moral quality - it is the taste of the angels. And all delight in fine art, and all love of it, resolve themselves into simple love of that which deserves love. That deserving is the quality which we call 'loveliness' - (we ought to have an opposite word, hateliness, to be said of things which deserve to be hated); and it is not indifferent nor optional thing whether we love this or that; but it is the vital function of all our being. What we like determines want we are, and is the sign of what we are; and to teach taste is inevitably to form character." Palavras sábias de John Ruskin num dos meus livros de cabeceira, The Lamp of Memory, à sombra de Turner.
"A luz acesa sobre o monte não elimina a noite."
A sabedoria não é saber tudo da vida, mas saber viver e colocar em prática; é a inteligência de estar com os outros ganhando nós e eles sem criar perdedores.
Sabedoria é inteligência mais coração, é o equilíbrio da cabeça e das emoções em tudo o que fazemos.
A sabedoria é saber permanecer no nosso lugar com serenidade e firmeza no meio das ondas do mundo, é desfrutar os tempos difíceis em vez de os maldizer, é construir quando todos destroem, é ter a coragem de estar fora das modas da estação, porque quando as coisas envelhecem depressa, é sinal de que não têm um fundamento sólido.
As pessoas felizes são pessoas que estão de pé, que têm qualquer coisa por que lutar, qualquer coisa em que acreditam, que não se sentam à margem da estrada. As pessoas infelizes, quanto a elas, dobram-se sobre si e fecham-se dentro delas.
É demasiado miserável a nossa sabedoria, e incerta a nossa providência.
É importante distinguir o essencial da vaidade, a banalidade daquilo que conta de verdade. Se não fazemos a cada dia este serviço à nossa mente, um dia cairemos na mediocridade, iludindo-nos de nela encontrarmos um valor ou um sentido. Seria preciso, no fim de cada dia, selecionar aquilo que é essencial, aquilo que conta realmente, daquilo que não conta, deveríamos fazê-lo mais vezes em vez de continuar a misturar tudo. É esta vigilância, como tomada de consciência do nosso caminho, que devemos cultivar.
Por vezes pensamos que estamos despertos quando não o estamos. Vigiar é guiar, com uma clara consciência, os sentidos e as três dimensões que temos: mente, corpo e alma.
A sabedoria requer uma outra atenção, aquela que Jesus faz experimentar aos discípulos na transfiguração, dizendo-lhes que a luz acesa sobre o monte não elimina a noite. No termo da transfiguração, descem do monte e reentram na escuridão das habituais contradições, mas a luz da transfiguração, se é verdade que não eliminou a noite, permite-lhes dar passos, caminhar um pouco.
Há uma luta contínua entre a sabedoria e o espírito do mal e da mediocridade. A sabedoria é mansa, o espírito do mal grita; a sabedoria é conciliadora, o espírito do mal não permite que o ser humano seja livre; a sabedoria está repleta de misericórdia, o espírito do mal não tem piedade de nós; a sabedoria não tem parcialidade nem hipocrisia, o espírito do mal é hipócrita porque se esconde no interior e não tem coragem de nos olhar na cara.
As escassas migalhas de sabedoria que adquirimos na vida, e que nos mudaram o coração, passaram através daquilo que na vida era imediato, pobre, essencial, simples, descomplicado.
Não foram os discursos de Jesus que converteram Pedro, mas o vê-lo com os espinhos e os escarros. Foi o Jesus da cruz que converteu o centurião, como para Francisco foi o leproso no caminho.
Deveríamos aprender a contar os nossos dias para chegar à sabedoria do coração. Sabedoria capaz de fazer-nos reconhecer Jesus nas suas muitas outras presenças silenciosas.
Luigi Verdi
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